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«Il PONTE Morandi di Genova è stato ricostruito in 24 mesi, da noi invece a 6 anni dal disastro ferroviario per lo scontro tra due treni è tutto come prima: aspettiamo il binario». Più ancora dei numeri il dito nella piaga lo mette Giovanna Bruno, sindaca di Andria, con il suo intervento alla presentazione dell’annuale Rapporto Svimez. Quello di Giovanna, avvocato, 47 anni, è un Sud che si rimbocca le maniche e non si piange addosso. Che non sa mentire a se stesso quando ricorda a tutti che la sua città, la quarta in Puglia per numeri di abitanti (99mila), non ha neanche un asilo nido perché l’unico esistente è stato chiuso dal Comune in pre-dissesto finanziario.

ANDAMENTO LENTO

Parole che certificano il passo di lumaca, l’andamento lento del nostro Mezzogiorno rispetto alle tempistiche europee. Tra progettazione, predisposizione della gara, affidamento dei lavori passano in media 785 giorni. Troppi. E basterebbe questo dato per trasformare in carta straccia qualsiasi cronoprogramma legato al Pnrr. Siamo in ritardo, insomma, e prima ancora di cominciare. Se si partisse nel prossimo mese di gennaio, per stare nei tempi richiesti per la rendicontazione – 31 agosto 2026 – resterebbero solo 6 mesi di tempo per fare il resto. La colpa però questa volta non è del Mezzogiorno. C’è il terrore della firma che attanaglia i sindaci e i funzionari degli enti locali. Problema sollevato in modo un po’ brutale proprio ieri dal neo ministro all’Ambiente, Gilberto Picchetto Fratin. E c’è la fragilità del Sud che fa da moltiplicatore Se a questo aggiungiamo le scarse competenze del personale, la loro consistenza, il mancato ricambio, la tendenza a esternalizzare, ecco che il quadro prende forma. Una locomotiva a vapore non può viaggiare a 300 km. La tradotta non può trasformarsi in Alta Velocità.

Il direttore della Svimez, Luigi Bianchi, ha mostrato la piantina della rete ferroviaria europea. L’Andalusia, tra le regioni meno sviluppate della Spagna, avvolta in una ragnatela di binari. Il grafico precipita nel nostro Mezzogiorno scollegato, sconnesso, isolato. «Una precisa scelta politica», ha puntato il dito Bianchi. È la storia del nostro Meridione, per anni depauperato di finanziamenti e svuotato di risorse umane. L’ultima fotografia, quella mostrata ieri, è anche più frustrante perché ora i finanziamenti europei ci sarebbero. I numeri elaborati dalla Svimez, nella loro glacialità, ci dicono che per realizzare un’infrastruttura sociale gli enti locali impiegano in media 1.368 giorni contro i 980 del Centro, gli 849 del Nord-Ovest e i 778 del Nord-Ovest. Sono cifre ricavate dall’osservazione di 87 mila opere pubbliche e monitorate nell’arco degli ultimi 10 anni. La riqualificazione delle piante organiche dei piccoli Comuni – dove a volte il segretario comunale è a pochi mesi dalla pensione e all’Urbanistica non c’è neanche il “geometra”- richiederebbe tempi lunghi. Troppo lunghi.

Che fare, allora? Per velocizzare la capacità attuativa degli enti locali «serve un affiancamento del centro mentre a livello locale servono forme innovative di alleanze – è la ricetta della Svimez – Centri di competenza nazionali che dovrebbero assumere la responsabilità piena di operatori pubblici, impegnati attivamente per la perequazione territoriale». L’associazione guidata dal presidente Adriano Giannola arriva a invocare «il potere sostitutivo dello Stato nei casi di palese inadeguatezza progettuale e realizzativa degli enti decentrati».

“QUOTA SUD” INAPPLICATA

Scelte politiche nazionali, burocrazie regionali, inefficienze varie. Dentro questa miscela il nostro Mezzogiorno rischia di scivolare in recessione. Per assurdo con i cantieri aperti e nel bel mezzo di un programma finalizzato al suo rilancio. L’altro tema toccato sta nella difficoltà di rispettare la cosiddetta “Quota Sud”, quel 40% da destinare al riequilibrio del Mezzogiorno, una riserva di spesa superiore al suo peso demografico (il 34%), che tante attese ha creato. Alla base c’è la difficoltà di calcolarla. Nel maggio del 2021 il Servizio studi della Camera e del Senato osservava infatti che «non è possibile definire la quota parte della spesa complessiva che sarebbe stata destinata alle singole regioni». Non tutte le amministrazioni rispettano la destinazione territoriale della “quota”, ma correggere i piani già in fase di avanzamento con azioni correttive non è semplice.

RISCHIO POVERTA’

La crescita fatta segnare dal nostro Sud è superiore alla media europea del 2021 e nel primo semestre del 2022 rischia di rimanere l’unica parentesi felice. I dati sulla povertà proiettati al 2023 – più 750mila persone in condizione di bisogno – sono agghiaccianti. E sono direttamente legati al “non lavoro”. «La quota di quanti sono a rischio povertà ed esclusione sociale – si legge nel dossier Svimez – è nel Mezzogiorno: 2,5 volte quella del Nord-Ovest». Tutti gli indici disegnano un divario che torna ad allargarsi. Più precari e più a lungo rispetto al resto del Paese e divario anche tra Nord e Sud per tasso di occupazione femminile.

PRECARIETÀ PERSISTENTE

In Italia, nel 2021 la quota di lavoratori dipendenti impegnati in lavori a termine da almeno 5 anni si attesta al 17,5% del totale dei lavoratori a termine. La precarietà persistente riguarda un lavoratore su 4 (23,8%, ma in calo di un punto percentuale rispetto al 2020), quasi 11 punti in più del Nord (13%) e superiore di oltre 7 punti del Centro. Nel 2020, ultimo anno disponibile, la quota di occupati precari (a termine e collaboratori) che a distanza di un anno trovavano un’occupazione stabile era al Sud particolarmente bassa, pari al 15,8%, contro il 22,4% a livello nazionale e il 26,9% al Nord.

CRESCE IL LAVORO POVERO

Cresce la povertà assoluta: una famiglia numerosa su 4 è povera, in particolare se la famiglia è straniera. Cresce inoltre in Italia anche il fenomeno del “lavoro povero”: nel 2021 gli occupati dipendenti extra-agricoli privati con bassa retribuzione (inferiore a 10.700 euro) sono 3,2 milioni, di cui 2,1 milioni al Centro-Nord (il 18% degli occupati) e 1,1 milioni al Sud, ben il 34,3% degli occupati. Dulcis in fundo il Reddito di cittadinanza, al centro di mille dispute e in corso di revisione da parte del governo che ne ha annunciato la fine dal 2024. Al netto delle truffe e dei furbetti, la misura – insiema al Rem, il reddito emergenziale – ha salvato migliaia di persone e di famiglie dalla povertà assoluta. «Solo un occupabile su 5 percettori ha ricevuto però una proposta di lavoro», ha spiegato Bianchi riferendosi al bacino di 660mila potenziali percettori dell’Rdc che rischiano di perderlo.

Nel 2021 il 59,8% delle famiglie che hanno percepito il beneficio sono del Sud e di queste il 40% residenti in Campania e in Sicilia. Se in Italia l’assegno di Stato arriva a 67 persone su mille, al Sud la percentuale sale a 126. Le uniche regioni del Sud con un’incidenza inferiore alla media nazionale sono Abruzzo e Basilicata (50 ogni mille). Numeri alla mano il dossier ha confermato la validità del Rdc in quanto welfare ma la totale inefficacia in termine di nuova occupazione.


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