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Salvatore Sarcone

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La ricostruzione dell’omicidio di Salvatore Sarcone: definì “pecoraro” il boss e per questo ucciso e mutilato delle mani

CROTONE – Aveva avuto l’ardire di chiamarlo “pecoraro” e così sarebbe stato ucciso e mutilato. Per questo il vecchio boss Domenico Megna, pochi mesi dopo essere uscito dal carcere, avrebbe ordinato l’omicidio di Salvatore Sarcone, rinvenuto in stato di mummificazione nel settembre 2014 nella località Irto, raggiungibile dalla suggestiva litoranea che da Crotone porta a Capocolonna, dopo che qualcuno gli aveva sparato alla nuca. L’ordine sarebbe stato impartito al boss di Roccabernarda Santo Antonio Bagnato alla presenza di Domenico Iaquinta, suo sodale, poi divenuto collaboratore di giustizia, che lo accompagnò a un summit nel quartiere Papanice di Crotone, dove è stanziata la cosca Megna.

Megna aveva anche fatto riferimento, secondo quanto racconta il pentito, al fatto che aveva già organizzato una trappola con I’ausilio dei componenti della famiglia di ‘ndrangheta dei Barilari Foschini che lo avrebbero tradito portandolo sul luogo dell’esecuzione. Girava i pollici, il boss, mentre spiegava le ragioni del suo risentimento.

«Megna chiese a Bagnato di ammazzare il Sarcone, dicendo che avrebbe avuto come spalla Pino Cardelli e, alla bisogna, ave fosse necessario, anche Alberto Cizza – racconta Iaquinta – Questo summit avvenne nell’estate del 2014. Successivamente, dopo l’omicidio, Bagnato mi disse che aveva ammazzato in uno con il Cardelli il Sarcone. Mi fece capire di avergli sparato in testa. Bagnato mi disse che il Sarcone era una persona molto diffidente e che era stato attirato in trappola».

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PRIMA UCCISO E POI MUTILATO DELLE MANI PER AVER DATO DEL PECORARO AL BOSS

Un particolare agghiacciante lo aggiunge un altro collaboratore di giustizia, Massimo Colosimo, gravitante nell’orbita del clan Trapasso di San Leonardo di Cutro del quale curava gli interessi in Emilia. In carcere, avrebbe appreso da Michele Bolognino che il corpo di Sarcone era stato anche mutilato delle mani, proprio perché il boss intendeva evidenziare la gravità dell’affronto subito («…ha visto che fine gli hanno fatto fare? La fine di un cane…gli hanno tagliato anche le mani»).

Sarcone, pur essendo un membro storico del clan dei papaniciari, aveva sempre rivestito il ruolo di fiduciario del boss scissionista Leo Russelli e dopo le fibrillazioni conseguenti alla uccisione di Luca Megna, figlio del boss, si era avvicinato al clan crotonese dei Barilari. La fuoriuscita dal carcere di Megna, pertanto, aveva alterato questo momentaneo equilibrio, in quanto il vecchio capo, rivendicando la propria supremazia, si era immediatamente attivato per riorganizzare il suo clan. Questa situazione aveva provocato la reazione stizzita di Sarcone che non intendeva piegarsi e non perdeva occasione per manifestare il suo disprezzo per Megna, incorrendo anche nel rimprovero di Gaetano Barilari che avrebbe riferito al boss di Papanice di quei comportamenti che riteneva scorretti. «Adesso vado e glielo dico… uomo sei tu e uomo sono io».

LO SFOGO DI SARCONE CON “L’OFFESA” AL BOSS

Ed ecco lo sfogo forse costato la vita a Sarcone. «Io li prendo con una mazza…vi faccio morza morza… sono una massa di tragiratori… ‘sti quattro pecorari…digli di mettersi sulle pecore e ci scrivono 600 e scendono con le pecore». Sarcone ironizzava peraltro sul ruolo di Barilari che sottolineava che il comando era di Megna: «portagli i pasticcini che è uscito». Megna, del resto, stigmatizzava la mancata visita di Sarcone col pretesto della sorveglianza speciale cui era sottoposto.

Il coinvolgimento di Barilari emerge anche dall’escussione di Gaetano Santoro, ritenuto contiguo al clan. Dopo un primo tentativo di negare, l’uomo ammette, sotto torchio della Squadra Mobile della Questura di Crotone, che era stato Barilari a chiedergli di fare una telefonata in Questura con un numero anonimo accusando Sarcone, poche ore prima della sua scomparsa, di essere stato il mandante dell’omicidio di Salvatore Macrì, avvenuto nell’agosto 2014. Forse per far apparire che i due delitti fossero legati. Barilari non c’è più su questa terra, essendo morto per cause naturali, e Santoro non gli chiese mai il perché di quell’ordine. «Per rispetto».

Ma è proprio Mario Megna, nipote del boss, nel commentare gli esiti dell’operazione Hermes contro i componenti della famiglia Barilari, a fornire altri elementi. Lo fa nel corso di una conversazione intercettata, facendo riferimento alla rapina a un grossista di gioielli. Sarcone era sospettato di avere sottratto una parte del bottino, oltre che di non avere scientemente distrutto le divise di finanziere. Divise utilizzate per il colpo e poi ritrovate dalla polizia in una campagna di Papanice. Mario Megna esternava disprezzo verso Sarcone. «I cristiani comuni non lo conoscevano, ora sanno chi è…se lui gli diceva della rapina, eh, eh sono i papaniciari …noi eravamo in galera».

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