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Shirley Jackson

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È il dicembre del 2021, viene distribuito nel mondo il film del regista Adam McKay, Don’t look up, che, poco tempo dopo la sua uscita, diventa un caso mediatico, innescando un’aspra polemica. Il film, in un contesto del tutto credibile e del tutto simile alla nostra società contemporanea, cala l’elemento del terribile, un’enorme cometa, scoperta da un team di scienziati, che distruggerà la terra, insieme alla narrazione ironica e grottesca dei nostri costumi: i commenti social, i meme, l’impero dei like, il predominio del consenso nella politica, la società capitalistica, l’indifferenza, la superficialità e l’individualismo dell’opinione pubblica.

L’uscita del film provoca in breve tempo una quantità enorme di reazioni. Numerosissimi sono gli spettatori che si sentono personalmente offesi dal film e molti, in particolare negli USA dove è ambientato il film, prendono parte a marce e proteste contro di esso, in una sorta di cortocircuito tra l’oggetto della narrazione e il soggetto reale.

È il 26 giugno del 1948, il New Yorker pubblica un racconto di una scrittrice non molto nota. In poco tempo, La lotteria diventa il racconto che ha ricevuto più lettere e commenti nella storia del New Yorker. Per la maggioranza negativi. Quelle lettere sono oggi conservate nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. In esse il racconto veniva definito “oltraggioso”, “orribile”, “completamente inutile”; la sua autrice, Shirley Jackson, additata come “perversa”, “sgradevole”, “di cattivo gusto”. Molti non riuscirono a nascondere il disagio anche fisico che avevano provato nel leggerlo. Alcuni pensarono che si trattasse di un resoconto di una pratica reale che avveniva in qualche sperduto paese delle campagne americane. C’è una parola che accomuna queste due opere, usata da Freud nei suoi scritti, ed è “perturbante”. Il perturbante si ha quando si apre una falla sottilissima, quasi impercettibile, nella compattezza della nostra realtà quotidiana, da cui però, lentamente, poco a poco, trasuda l’orrore.

Shirley Jackson, nata nel 1916, è senza ombra di dubbio la regina del perturbante che, come scrive Stephen King, indicandola da sempre come sua maestra, “non alza la voce, ma riesce a trasformare la grazia di una storia brillante nel nero più profondo”. Sotto la prosa volutamente piana e trattenuta di Jackson si agita e gorgoglia il magma delle passioni e perversioni umane, del disagio, della sofferenza, di un male incompreso e spesso ingiustificato. Non ci sono mostri o bestie spaventose nelle sue storie, perfino i suoi fantasmi sono più vicini a ricordi che a creature soprannaturali. Tutto l’orrore viene dalle persone viventi. Anche le case infestate, l’archetipo di tutte quelle future dell’immaginario horror, non sono che il guscio che tiene insieme le vite umane presenti e passate, celandone le sofferenze e gli istinti come il corpo fa con i moti dell’anima.

Shirley Jackson è stata nella sua carriera, scrittrice di storie dell’orrore e di brillanti bozzetti di vita domestica. I suoi due ambiti di scrittura erano separati eppure vivevano di rimandi l’uno all’altro, e alla vita quotidiana della loro autrice. “Sono stanca di scrivere graziose storielle autobiografiche in cui mi fingo una linda casalinga con un grembiule a fiori […]” – scrive Jackson in un racconto intitolato La vera me –“Mentre rifaccio i letti e lavo i piatti, mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. […] Mi mantengono attiva, le mie storie. Forse quella sul cesto della biancheria non la scriverò mai — anzi, sono quasi certa che non la scriverò — , ma finché so che lì c’è una storia posso andare avanti a separare i capi bianchi da quelli colorati.”

Quando era piccola, Shirley Jackson aveva già sperimentato quel senso di sdoppiamento quando si chiudeva in camera a scrivere forsennatamente nella speranza di avere ancora un po’ di tempo prima che la madre spalancasse la porta per intimarle di smettere. “Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà”, scrive Jackson adulta ne L’incubo di Hill House. E così, per sfuggire alla crudezza della visione di quella realtà assolutizzante, in tutta la sua vita assumerà alcol, anfetamine e barbiturici fino a morire, per arresto cardiaco, a soli 48 anni. Ma ha 32 anni quando scrive e pubblica La lotteria. La lotteria del titolo si svolge nella quieta e calda aria di fine giugno, la natura è rigogliosa e accogliente, i bambini scorrazzano fin dalle prime ore del giorno giocando a raccogliere sassi, i paesani si radunano in piazza, commentano il raccolto o parlano del più e del meno, mentre i biglietti della lotteria vengono piegati e inseriti nella scatola dell’estrazione.

L’effetto incredibile, quasi cinematografico, che fa la scrittura di Jackson è una sorta di messa a fuoco progressiva di dettagli che prima, nel quadro generale, erano sfuggiti. È come se l’autrice ci acuisse poco a poco lo sguardo, rendendoci capaci di cogliere alcuni gesti sfuggenti, sguardi nervosi, sorrisi tirati, scatti involontari che prima non riuscivamo. Nel medesimo quadro, si insinua poco a poco un’inquietudine tesa, fino allo svelamento finale, inaspettato, crudele. Un colpo partito da non si sa dove. Un vero e proprio tradimento. “Lotteria di giugno, spighe grosse in pugno”, dicono i vecchi del villaggio, criticando i giovani di altri paesi che vogliono abolirla. Dove andremo a finire. Si comprende alla fine che il vincitore della lotteria sarà lapidato dalla folla per propiziare il raccolto dell’anno. E non è tanto la gratuita insensatezza del rituale in sé che disturba, quanto l’assoluta umanità della folla radunata in piazza che, finalmente sollevata, festosamente si dà al massacro.

“Penso che sperassi che ambientando un antico rito particolarmente brutale nel presente e nella mia stessa cittadina avrei scioccato i lettori mostrando in modo drammatico la violenza senza senso e la disumanità generale delle loro stesse vite”, scrive Jackson in una lettera.

Torniamo al 2021 e alle proteste scaturite da Don’t look up. McKay compie in quel film la mossa che Jackson fa ne La lotteria e in molti sue opere: rende l’orrore qualcosa di vicino, di uso comune, di quotidiano, di innocente, di nostro. Ruth Franklin, critica letteraria e biografa di Jackson, così scrisse a commento delle reazioni dei lettori del New Yorker, sconvolti da La lotteria: “ci videro un orribile riflesso delle proprie facce, anche se non si resero conto esattamente di cosa stessero guardando”. “La vista del proprio cuore è avvilente – fa dire Jackson a un personaggio ne La meridiana – “le persone non sono fatte per guardarsi dentro, è per questo che hanno ricevuto un corpo: per nascondere l’anima.”



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