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Carlo Emilio Gadda

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Carlo Emilio Gadda è scrittore a sé. Unico. Complesso e stratificato. Indecifrabile. In quest’ultima caratteristica è racchiusa tutta la difficoltà che qualunque lettore incontra nell’approcciarsi alla sua opera, e al tempo stesso proprio in essa si nasconde la sorprendente bellezza della sua letteratura. Gadda si perde continuamente nella matassa dei pensieri – e il lettore qualunque con lui – senza riuscire a venirne fuori con un’idea netta di realtà. Le riflessioni si attorcigliano su loro stesse senza soluzione. Le circonvoluzioni della mente si complicano sempre di più. Eppure, proprio qui è custodito il segreto della sua unicità: in questa incessante esplorazione del mondo, che non rinuncia ad andare avanti pur non arrivando ad alcun approdo.

Gadda è stato definito il maggiore scrittore italiano del pieno Novecento – e il suo romanzo La cognizione del dolore è considerato da tanti il più grande capolavoro della nostra letteratura del secolo passato. Non c’è unanimità, però. Alcuni faticano addirittura a chiamarlo narratore: poiché il vero passo del racconto – sostengono – è sviluppo e non ingorgo.

La narrativa gaddiana – sottratta alla logica della consequenzialità, alla necessità della trama, all’obbligatorietà della conclusione – si rivela nel suo garbuglio inestricabile la più simile alla vita. Non sono le cose che ci accadono, una di fila all’altra, a determinarci, è piuttosto come le percepiamo – e cioè come ne facciamo esperienza – ognuno secondo i propri tic, le proprie manie, le proprie ossessioni. In una parola, ognuno secondo il proprio carattere: nostra più atroce condanna o nostra più immensa fortuna. Il groviglio originale sta tutto lì: nell’ingorgo del pensiero che si crea nella nostra testa. È quello che rende ogni cosa bella o brutta, facile o difficile.

C’è solo un altro grandissimo scrittore capace di reggere il paragone con Gadda, è James Joyce: la dimostrazione che nessuna letteratura, se non la nostra, ha formulato una pseudo legge secondo cui tensione stilistica e tensione narrativa sarebbero inversamente proporzionali. Se Joyce è un romanziere – e non c’è alcun dubbio che lo sia – allora anche Gadda lo è: è un narratore “espressionista” – come in Italia non ne abbiamo avuti altri – che segue un moto contrario a quello del solito narrare che va dall’esterno all’interno. Gadda procede all’opposto: dall’anima alla realtà, dallo spirito alla materia. Non è il racconto delle cose per come sono, è il racconto delle cose per come l’autore le vede e le vive. Ed effettivamente esistono pensieri che stanno solo nella nostra testa e nelle pagine dei suoi libri.

A rendere unico lo stile di Gadda contribuisce soprattutto il linguaggio: forse l’elemento più tangibile di una poetica così profondamente basata sull’introiezione del mondo. Anche la lingua di Gadda è a sé. Un idioletto solo suo. Un impasto variegato di parole colte e arcaicizzate, gergali e dialettali, a cui si mescolano e si accumulano termini stranieri. Una polifonia che mima da vicino la molteplicità sfuggevole da cui lo scrittore era ossessionato. Quella pienezza irraggiungibile da chi, per carattere, è inesorabilmente portato a perdersi nei dettagli pur aspirando a cogliere l’insieme, a inglobare il mondo. Come si può giungere a una soluzione finale mentre la realtà si smaterializza e si ricompone di continuo, in una serie di aggregazioni alternative? Gadda aggroviglia scrittura e pensieri senza giungere mai a tirare le fila del discorso. Le sue opere non concludono, non hanno forma stabile. Sono magmatiche, lavorate ostinatamente.

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C’è un elemento stilistico ulteriore – accanto a quello strutturale e a quello linguistico – che va preso in considerazione nella prosa gaddiana: sono sue, appartengono tutte a lui, le emozioni che vengono riversate nel racconto. Sono queste che dilagano nella pagina, non quelle dei personaggi. A modulare o perturbare quel canale comunicativo che si instaura tra autore e lettore. E cosa ancor più singolare sono emozioni in continua oscillazione: ira, sdegno, furore, dolore, amarezza, malinconia, commozione, ilarità, euforia; con tutti i relativi registri: sarcastico, ironico, elegiaco, sublime, tragico, comico. Ciò rende con certezza Gadda il più umorale dei nostri scrittori – che ride nel pianto – capace di cambiare tono bruscamente, nel giro di una sola frase. Totalmente incoerente. Completamente contraddittorio. Sempre agognante, bramoso di interezza. È in un simile miscuglio di pensieri, registri ed emozioni che si sostanzia la rappresentazione più caotica e vera dell’inestricabile flusso vitale.

Non importa stabilire se Gadda sia il più grande scrittore italiano del Novecento. Gadda è imprescindibile. Questo è sufficiente. Imprescindibili sono le sue opere, tre su tutte – così diverse e così simili – La cognizione del dolore (1963), L’Adalgisa (1950) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) – in cui è francamente impossibile trovare qualcosa di superfluo o superato.

Conosciamo di Carlo Emilio Gadda le nevrosi, le paranoie, le ossessioni, le manie, i complessi, i rimorsi, il male immedicato e immedicabile, il buio orrido di un’anima ingarbugliata nei suoi pensieri, avida, invidiosa, lacerata. Non ne fa mistero alcuno. Anzi, è ciò di cui scrive. E allora, viene da chiedersi, acquisita una certa consapevolezza di ciò che si è, perché non tentare di liberarsi di tale triste configura? Conoscere le proprie nevrosi non significa essere capaci di separarsene.

Scrive Gadda: “Non c’è magistero per le anime sbagliate, le loro piaghe non conoscono cipria”. A voler seguire il viluppo vorticoso delle circonvoluzioni mentali, ciò che noi sappiamo di Gadda, che è ciò che lui crede di sé, non è che il frutto distorto delle sue nevrastenie. Di quel desiderio mai sazio di pienezza che fa i conti con errori e mancanze. – Anche la percezione che abbiamo di noi stessi è alterata dal carattere.

In fondo, cosa siamo senza le nostre nevrosi? Compagne contraddittorie, ricercate e respinte. Nostra dolorosa costrizione, nostro consolatorio riparo. La monotona rissa di ogni giorno perderebbe il fascino dei suoi contrastanti colori. Senza di esse Gadda avrebbe perso la sua intensità: in lui nulla è lieve, effimero, futile, tutto finisce per avvilupparsi in un nodo, in un groviglio, in uno “gnommero” folto, denso, impenetrabile, dove convergono passato, presente, futuro, la realtà, il sogno, il tragico, il comico. In cui niente può essere dimenticato o cancellato. Da questa intensità nasce la sua unicità.



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