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Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid

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CATANZARO – «Se la manifestazione avrà successo, sarà più importante che sia stata fatta a Milano piuttosto che a Reggio Calabria». Ne è certo Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid, tra le ormai oltre 130 organizzazioni aderenti alla manifestazione “Mai più stragi” promossa dal Terzo Settore in seguito alla scoperta del progetto di attentato ai danni del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

Perché la scelta caduta su Milano?

«Una manifestazione di questo tipo in Calabria, anche se non se ne sono fatte molte, un po’ te l’aspetti. A Milano te l’aspetti un po’ meno, e speriamo che il messaggio che si vuole lanciare faccia riflettere. Le prime organizzazioni chiamate a riflettere su invito di Goel hanno subito ipotizzato che Milano poteva essere la sede. Noi siamo stati tra quelli che hanno sostenuto che se si vuole dare messaggio forte non si poteva aspettare a lungo, anche perché incombe l’estate, e sarebbe più difficile mobilitarsi a luglio inoltrato. Mettere assieme la coalizione con questo caldo è stato difficile, non ci si può aspettare manifestazioni oceaniche, bisognava stare attenti a non fare un buco nell’acqua. Giugno poi è un mese impegnativo per le associazioni perché è il periodo in cui si chiudono i bilanci. Anche noi abbiamo sostenuto che era necessario muoversi fuori dalla Calabria per lanciare il messaggio per cui non si tratta di una questione locale. A Milano, inoltre, si può contare sull’appoggio di un associazionismo organizzato e sulla benevolenza del Comune e delle autorità locali, Roma è una città più addormentata anche se più grande, in cui peraltro succedono tante cose. Ma la motivazione di fondo è che a Milano la ‘ndrangheta ha sviluppato particolarmente i suoi interessi. La questione ‘ndrangheta ha superato i confini locali, non è un problema da risolvere in casa ma che mette in discussione i poteri dello Stato. La ‘ndrangheta non è un fenomeno solo calabrese ma ha interessi dappertutto e Milano è la capitale economica d’Italia, un luogo in cui i confini tra attività illecite e risorse inserite nell’economia sono molto labili. Le organizzazioni nazionali che si mobiliteranno non hanno avuto alcun dubbio sulla scelta di Milano, certo fare la manifestazione il 5 luglio non sarà facile ma anche il lavoro dei media potrà essere utile».

Action Aid si è occupata di recente della Calabria, con riferimento al dossier sullo sfruttamento del lavoro nei campi, anche di quello femminile, specie di lavoratrici straniere che si vedono negati i diritti più elementari…

«Action Aid ha come missione quella di occuparsi di qualità della democrazia, che per noi dev’essere sostanziale. Ciò che facciamo è molto centrato su questioni decisionali, sia quando decidiamo chi deve prendere l’acqua in un villaggio africano che quando monitoriamo i fondi del Pnrr. Cerchiamo di fare in modo che la democrazia sia potere del popolo, secondo il suo significato autentico. La nostra adesione alla manifestazione è logica, pur non avendo noi fatto un lavoro specifico sulla legalità in senso lato. Ci siamo occupati dei diritti delle donne anche in Calabria ma il motivo di fondo che ci ha spinti a partecipare è la tenuta democratica del nostro Paese. Tra gli ormai 130 aderenti è condivisa l’idea che sia necessario lanciare un messaggio forte contro la criminalità organizzata».

A proposito di lotta al caporalato, la recente nuova normativa che ha inasprito le misure è sufficiente? Le continue, anche recenti operazioni delle forze dell’ordine dimostrano che il fenomeno è lungi dall’essere debellato e forse occorre fare di più in termini di prevenzione…

«Quando dico che lavoriamo sulla qualità della democrazia intendo questo. È necessario imporre misure repressive ma è la relazione economica che consente di sradicare fenomeni di oppressione come il caporalato. Gli aspetti punitivi sono doverosi ma bisogna creare alternative. Noi non possiamo certo sostituirci allo Stato, ma lavoriamo su piccoli gruppi di persone, braccianti sfruttati, perché imparino a crearsi alternative come un po’ si faceva con le mutue dell’Ottocento. Dopo di che, lo Stato deve togliere a chi sfrutta il lavoro tanto i vantaggi quanto le ragioni di necessità. In certi casi il lavoro viene sfruttato perché non ci sono alternative per chi ha un pezzo di terra. Lavoriamo sugli sfruttati cercando di aiutarli, per esempio a sindacalizzarsi, ma bisogna creare condizioni abilitanti, per cui non ci sia bisogno di ricorrere allo sfruttamento del lavoro. Sindacalizzare gruppi di persone anche se non hanno la cittadinanza italiana significa riconoscere che sul territorio in mancanza di servizi sono costretti ad accettare tutto. Il portatore di doveri resta lo Stato e non le organizzazioni civiche. Ma perché uno Stato funzioni, tutti i suoi poteri bilanciati devono operare in sicurezza. In questo contesto una magistratura libera e attrezzata diventa fondamentale, per tornare alle ragioni della mobilitazione».

La scoperta del progetto di attentato è avvenuta quasi contestualmente alla mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia, nel periodo in cui si ricordava il trentennale delle stragi. Gratteri rischia l’isolamento e la delegittimazione?

«È una valutazione che abbiamo fatto con gli altri organizzatori. In particolare, Gratteri non è la prima volta che riceve schiaffi essendo già stato in predicato di diventare ministro. Non dico che lo Stato lo abbia abbandonato ma di certo non lo ha valorizzato, questa potrebbe essere una chiave di lettura corretta o probabile. Sta di fatto che è un obiettivo per chi realizza progetti di attentato, che sia particolarmente a rischio è dimostrato dal rafforzamento della scorta. Ora dobbiamo muoverci preventivamente. La mobilitazione non è poi a sostegno di una sola persona. Gratteri è un simbolo anche per magistrati altrettanto a rischio, magari meno noti».

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