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Abraham Yehoshua

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In un viaggio recente negli Stati uniti, mi è capitato di parlare con un tassista che si era trasferito da Israele negli Usa da trent’anni. Dopo aver chiacchierato del più e del meno, quell’ uomo di mezz’età, spigliato, acuto, mi chiede a bruciapelo, con tono confidenziale: “Ma, allora, Gesù Cristo chi l’ha ucciso?” Io rimango spiazzata da quella domanda che non mi aspettavo. So chi ha ucciso Gesù Cristo, lo sanno tutti. Eppure esito. Il tassista ha un sorriso sornione, lo vedo nello specchietto retrovisore. Ma pure mi sembra che sia diventato un poco mesto, quasi umile, leggermente colpevole. Lo sa anche lui chi l’ha ucciso Gesù Cristo. Ma, improvvisamente, davanti a quel sorriso presente e vivo, a me questa questione non sembra poi così importante. Gli rispondo: “Che importa? Sono passati duemila anni.” Questa volta, lo vedo, è lui a rimanere spiazzato. Scuote la testa. “La maggior parte dei tassisti di qui sono cubani” mi dice “I cubani sono molto cattolici. Vengono da me e nelle pause chiacchieriamo.” Fa una pausa, cerca un tono di leggerezza, ma ha la voce stanca: “Dicono che Gesù Cristo lo abbiamo ammazzato noi.”

Abraham Yehoshua è morto poco tempo fa, il 14 giugno di quest’anno. Era il più noto scrittore israeliano in vita. Insieme a Amos Oz, Yoram Kaniuk e David Grossman, ha rappresentato la generazione di scrittori che maggiormente ha diffuso la letteratura israeliana nel mondo.

Ha vinto molti premi, è stato per molte volte candidato al Nobel. Era nato a Gerusalemme 85 anni fa, da una famiglia che univa le differenti anime del popolo ebraico, quelle stanziali e quelle raminghe. Lui stesso definiva la sua letteratura una “fusione delle diaspore”.

Negli ultimi anni della sua vita, gravati dalla malattia, aveva pronunciato una frase divenuta celebre: “La morte è molto importante. Un dono che facciamo ai nostri nipoti: lasciare loro spazio.” Quelle sue parole non sono che un compendio di tutta la sua opera e del suo intero pensiero. Lasciare spazio alle nuove generazioni significa liberarlo da ciò che lo occupa, lo riempie, lo consuma. Ma cos’è quel qualcosa?

È stato detto che nessuno ha descritto, analizzato, sviscerato la psicologia degli israeliani, come individui e come popolo, quanto Abraham Yehoshua. Come era un virtuoso della sua lingua, tanto che si dice abbia raggiunto vette di perfezione della costruzione e impalcatura della frase che saranno difficilmente eguagliabili, così è stato anche per l’indagine dell’animo israeliano, di cui riusciva a sondare e illuminare ogni piega e angolo recondito.

Il popolo israeliano è un popolo che ha un difficile rapporto con la sua identità. Un’identità fortissima ma avvertita come perennemente labile, minacciata, in bilico, specie in secoli della diaspora, un continuo e costretto confronto con la diversità, non sempre andato a buon fine. Così pure nel momento in cui si è stabilito in Israele, questo popolo ha conservato un attaccamento morboso alla propria identità e alla propria storia, perché l’identità si nutre fondamentalmente di passato.

“La troppa memoria si trasforma in una barriera” , ha scritto una volta, e il popolo israeliano è malato di memoria. Abraham Yehoshua nella sua vita ha combattuto molte battaglie, per la laicità, per gli eguali diritti umani, per la pace tra i popoli. “Mi sento come l’ultimo soldato rimasto nella vedetta” , aveva dichiarato qualche tempo fa. Una che maggiormente gli stava a cuore era quella, complessissima, della pace e della convivenza tra israeliani e palestinesi, su cui mai ha smesso di interrogarsi. Una risposta, alla fine l’aveva trovata: bisognava che entrambi i popoli si lasciassero permettersi di dimenticare.

“Quello che stavo cercando di dire, un messaggio che rivolgo sia agli israeliani che ai palestinesi: dobbiamo cominciare a dimenticare, noi dobbiamo cominciare a dimenticare. C’è questo culto per noi ebrei, della memoria, che ci porta a rivangare continuamente il ricordo della Shoah, a parlare sempre dell’antisemitismo e a quello che ha fatto a noi, a scavare e riscavare nelle ferite del passato. Basta! (…). Ai palestinesi dico la stessa cosa. Voi siete lì, a Gaza, fate manifestazioni, proclamate che volete tornare nelle vostre case, lo capisco, le case dei vostri genitori, dove siete cresciuti, sono a dieci chilometri di distanza… ma c’è un muro che vi separa, non potete più tornarci. Siete stati espulsi all’epoca della grande catastrofe dei palestinesi. Troppa. Memoria. Ricordare troppo sta diventando pericoloso per i nostri due popoli, guardate, anzi, guardiamo: il mondo si evolve a una velocità vertiginosa, le sfide che ci troviamo di fronte sono numerose, noi dobbiamo adattarci, conformarci. Non possiamo sempre soltanto, ricordare con la testa girata indietro.” Penso al mio tassista di Tel Aviv e a quella sua aria circospetta con cui mi aveva chiesto chi avesse ammazzato Gesù Cristo, come se fosse una questione ancora aperta, una ferita sanguinante che aveva un peso reale sulla sua vita quotidiana. E così era.

Per Yehoshua permettersi di cominciare a dimenticare non significa rinnegare l’identità ma smettere di dare ad essa un peso assoluto. L’identità è nociva se lasciata sola, se è fine a se stessa. Può vivere solo come contrappeso di un rapporto con un altro polo, ossia quello della relazione, della diversità, l’unico che riporta l’identità al presente e la cala nella storia. Yehoshua ammirava la sottigliezza e l’intelligenza con cui gli israeliani interpretano i testi sacri biblici, talmudiani o mishnaici, ma, diceva, quanto sarebbe utile se quella stessa grande, importante opera di concentrazione e di comprensione fosse rivolta su testi più concreti, attuali, come il bilancio dello Stato o le sentenze dei tribunali, testi non pervasi dall’aura di sacralità e intangibilità, ma calati nell’esperienza, che non possono essere unicamente interpretati ma anche confutati e messi in discussione, perché “confutare un testo non significa necessariamente smentirlo, dichiararne l’inattendibilità; significa piuttosto prenderne possesso, saggiarne il potenziale di incarnazione, verificare la sua portata di concretezza, e dunque proprio di veridicità. Ciò che non può essere confutato neanche può essere avvalorato.” Confutare il passato, metterlo in discussione, vuol dire prenderne possesso e solo possedendolo realmente se ne può finalmente prendere distanza e ricavare nella vita degli uomini presenti tanto libero spazio.



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