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Michael Ende

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Dentro Fantàsia, il regno immaginario inventato da Michael Ende ne La storia infinita , si può andare avanti solo desiderando. Il desiderio che fa muovere, che porta da un luogo all’altro, però, non può essere vago: “Le strade di Fantàsia le puoi trovare solo grazie ai tuoi desideri. E ogni volta puoi procedere soltanto da un desiderio al successivo. Quello che non desideri ti rimane inaccessibile. […] E non basta volere soltanto andar via da un luogo. Devi desiderarne un altro. Devi lasciarti guidare dai tuoi desideri”. Nel mondo interiore della propria immaginazione, nella fornace che più del sangue, delle pulsazioni e delle connessioni nervose alimenta il nostro andare, occorre desiderare per muoversi, altrimenti si è bloccati, ci si smarrisce, si rimane immobili in balia del Nulla. Ma perché un desiderio sia tale deve essere nominato. Dare un nome a qualcosa significa metterla al mondo, dare ad essa un corpo, un posto e uno scopo. Le cose desiderate nominate compongono sé stessi, danno forma alla propria identità. Sull’Auryn, il talismano che è la chiave del mondo di Fantàsia, sono incise queste parole: “fa’ ciò che vuoi”. Sono apparentemente semplici, eppure, come ogni parola in Fantàsia, perché si rivelino devono essere scoperte, rigirate e comprese.

La nostra epoca è stata denominata spesso l’età dei desideri. Non c’è momento storico in cui più si ha la possibilità di esprimere tanti desideri e con un raggio di comunicazione così ampio. Ogni cosa è desiderio generatore di desideri: ogni film o serie tv prodotta, ogni pubblicità obbligatoria o casuale, ogni video autopubblicato sui social per spettatori più o meno numerosi. Le nostre vite sono fucine incandescenti di desideri. Eppure c’è in questi desideri un malessere silenzioso e sottile, è impossibile non notarlo. Ogni look sfoggiato, ogni luogo esibito, ogni ballo ripetuto più che tendere verso qualcosa ha in sé una sorta di staticità disperante. La nostra comunicazione di desideri è, per una buona parte, un affollamento di disperazioni. C’è un posto in Fantàsia dove alla fine arriva Bastiano, il bambino protagonista, consumato dalla molteplicità e dalla vaghezza dei suoi desideri che sostituendosi l’uno all’altro, affastellandosi l’uno sull’altro, lo avevano risucchiato, facendogli dimenticare chi fosse in realtà e cosa realmente volesse: quel posto è chiamato la Casa che muta, così detta perché non soltanto cambia sé stessa, ma pure coloro che vi entrano dentro. La Casa che muta è l’ultima possibilità di Bastiano per non smarrire completamente sé stesso, per ritrovare la sua “vera volontà”, per cambiare, “E questo era molto importante per il bambino, perché fino a quel momento egli aveva sempre voluto essere un altro, ma non aveva mai desiderato di cambiare se stesso.” Viviamo nell’epoca dei desideri, che si traduce molto spesso nel desiderare di essere qualcun altro.

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Gli altri sono costantemente sotto il nostro sguardo e noi sotto il loro, e noi stessi siamo un altro quando ci mostriamo a quel modo. Infinite comunicazioni, influencer e micro influencer, qualsiasi veicolo di bisogni dinanzi a quali siamo totalmente assorbenti, inermi, ci comandano di desiderare di essere altro e altro ancora. Il nostro desiderare, perennemente stimolato, non ha più requie. Nel mondo di Fantàsia i desideri però hanno un prezzo. Il continuo desiderare si alimenta dei ricordi di chi desidera. Li consuma, poco a poco, fino a svuotarne l’identità. Per desiderare qualcosa è​ necessario conoscere sé stessi, ma chi non ha ricordi non ha presente e non ha avvenire, per coloro che dimenticano “nulla può cambiare, perché loro stessi non possono più cambiarsi.” Nessuno nella nostra epoca ci ha spiegato il costo del nostro ininterrotto, vago, desiderare. Nel rumore incessante di desideri è difficile avvertire la minuscola, costante e tenace erosione del nostro più intimo e sincero io. Michael Ende così descriveva La Storia infinita , il suo capolavoro: «È infatti la storia di un giovane che in questa notte di crisi, una crisi esistenziale, perde il suo mondo interiore, quindi il suo mondo mitico […], e deve saltare dentro questo Nulla, allo stesso modo in cui dobbiamo farlo anche noi europei.

Siamo riusciti a perdere tutti i valori e ora dobbiamo saltare dentro, e solo se abbiamo il coraggio di saltarci dentro, in questo nulla, possiamo risvegliare le forze creative più personali e interne e costruire una nuova Fantàsia, cioè un nuovo mondo di valori.» “Fa’ ciò che vuoi”, la frase incisa sull’Auryn, è nient’altro che un invito al movimento. Il movimento è vita, la staticità risucchia nella vaghezza, la vaghezza sprofonda nel nulla. Nominare i propri reali desideri significa sottrarli al rumore e, un desiderio dopo l’altro, arrivare a darsi un nome.

La letteratura stessa non è che l’arte di nominare le cose, Ende la definirebbe il gioco di dar nome a ciò che per quanto esista, come esiste il nulla, non può veramente venire al mondo fino a che non è nominato da qualcuno, con le sole e necessarie parole che significano quella e nessun’altra cosa. La critica in passato ha tacciato Ende di “escapismo”, di irrealismo, di mancanza di contatto con la realtà e la società contemporanee. C’è in Momo alla conquista del tempo , un altro capolavoro di Michael Ende, un’improvvisa irruzione, in una tranquilla comunità, dei Signori grigi, uomini in bombetta, vestiti di grigio, con un sigaro in bocca che si consuma in incessanti volute di fumo.

I Signori grigi convincono gli uomini e le donne di lì a non sprecare il proprio tempo, a riempire costantemente gli spazi, a non avere vuoti. Tutto il tempo così risparmiato sarebbe stato conservato in una Banca del tempo da loro gestita. Gli uomini e le donne così rinunciano al tempo e riempiono tutte le ore, solo Momo, la bambina protagonista, in un viaggio avventuroso, scopre che la Banca del tempo non esiste e tutto il tempo risparmiato si trasforma nel fumo dei sigari che alimentano e tengono in vita i Signori grigi. Nella fretta di riempire il tempo, le persone erano diventate caotiche e infelici perché avevano cessato di percepirlo. Forse anche nella nostra epoca dell’affollamento delle immagini, delle comunicazioni, dello scrollamento ininterrotto, della mancanza di spazi vuoti, abbiamo dimenticato la capacità del nostro cuore di percepire il tempo, e quindi di dominarlo: “Perché come voi avete occhi per vedere la luce, e orecchie per sentire i suoni, così avete un cuore per percepire il tempo. E tutto il tempo che il cuore non percepisce è perduto, come i colori dell’arcobaleno per un cieco o il canto dell’usignolo per un sordo”.



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