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Vladimir Majakovskij

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Qualunque cosa si dica sul conto di Vladimir Majakovskij – per inquadrarlo, conoscerlo, tentare di comprenderlo – appare superflua e al contempo insufficiente. Come ha scritto Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere: “Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.” I grandi scrittori – quelli che restano nel tempo – hanno il potere di regalarci la fugace parvenza della comunione. Alcuni di loro però, fanno eccezione. Majakovskij, ad esempio.

Sono quelli capaci di pensieri da nessuno pensati prima. Anzi, meglio. Sono quelli capaci di pensieri che nessuno sa di aver pensato fino al momento in cui non li incontra sulla pagina. Fino a quando non li legge nero su bianco tra le righe di questi eletti precursori. Così ci si accorge, che senza saperlo, quei pensieri sono già nostri. Questi grandi scrittori scelti – un gruppo ristretto tra quelli che restano nel tempo – hanno il potere di regalarci la pienezza della scoperta: la sensazione di compiutezza che si prova di fronte alla rivelazione. Hanno il potere di inchiodarci alle consapevolezze che troppo a lungo abbiamo ignorato.

Sono queste le ragioni per cui Vladimir Majakovskij può e deve essere raccontato senza orpelli, senza fronzoli, senza ricami. E la ragione di più, è che è il solo modo che avrebbe apprezzato.

Poeta, scrittore, drammaturgo, regista teatrale, attore, pittore, grafico e giornalista, nacque nel 1893 in Georgia, allora parte dell’Impero russo. Il padre era un guardaboschi, la madre una casalinga ucraina. Quando aveva sette anni, suo padre morì. All’età di 13 anni, con la madre e le sorelle si trasferì a Mosca. Visse un’infanzia difficile, ed ebbe un’adolescenza molto ribelle. Giovanissimo – appena quindicenne – aderì al Partito operaio socialdemocratico russo e si dedicò ad attività sovversive. Fu più volte arrestato e poi rilasciato dalla polizia zarista. In carcere cominciò a scrivere versi in un quaderno. “Un grazie ai guardiani: all’uscita me l’hanno sottratto, altrimenti l’avrei pubblicato!”, scrisse tempo dopo.

Majakovskij si formò negli anni immediatamente successivi al fallimento della rivoluzione del 1905: l’impetuosa ascesa del movimento operaio venne brutalmente repressa dalla reazione zarista. Molti intellettuali a quel punto, disertarono la lotta. Non lui, alimentato da uno spirito d’avanguardia, refrattario al conformismo, critico verso il mondo letterario del passato, il decadentismo e i burocrati d’ogni genere. L’odio del passato, il rifiuto delle concezioni piccolo-borghesi, la visione di un avvenire umano dinamico, trovarono espressione nella sua piena adesione al futurismo – niente a che vedere con quello italiano, imperniato sul nazionalismo e schierato a favore della guerra, “sola igiene del mondo”. L’avanguardia russa poggiava sul movimento operaio democratico. E alla definizione marinettiana, corrispondeva la ripulsa di Majakovskij: “schifo e odio per la guerra”.

Nel 1911 si iscrisse all’Accademia di pittura, scultura e architettura di Mosca. Nel 1913 venne pubblicata la sua prima raccolta di poesie Ja! (Io!). Abbattimento del vecchiume non significa solo distruzione di qualche vecchia regola poetica, ma fine della vecchia società attraverso il sovvertimento dello zarismo e la liberazione del popolo. Majakovskij si fece cantore della rivoluzione: la sua poesia risuonò nelle steppe oppresse e nelle fabbriche pronte a esplodere. Incandescente, frenetica, veemente, epica, densa di sarcasmi, sacrilega, veniva declamata dal suo stesso autore al cospetto delle folle in sommossa.

Nel 1915 Majakovskij pubblicò il poema La nuvola in calzoni. L’anno successivo, Il flauto di vertebre. Così facendo pose le basi di un linguaggio poetico nuovo: concitato, smisurato, iperbolico. Non sarebbe più stato un poeta “puro”. Piuttosto, fu un poeta “ingombrante”, su cui la critica non si risparmiò, accusandolo di aver profanato il tempio della poesia scrivendo degli argomenti più impoetici.

La rivoluzione d’ottobre non suscitò in lui alcun dubbio. Non esisteva il dilemma tra l’aderire e il non aderire. La sua attività in quel periodo fu immensa: il teatro, il manifesto politico, la satira, le parole d’ordine e la poesia lirica. Videro la luce: 150.000.000, il canto alla forza del popolo russo finalmente liberato dalla schiavitù e capace di respingere ogni aggressione del mondo capitalistico; Vladimir Il’ic Lenin, l’opera dedicata a Lenin, appena morto, in quindici canti la storia del movimento operaio russo e internazionale; Bene!, poema di propaganda proletaria, scritto in occasione del decimo anniversario della rivoluzione del 1917. I lavori teatrali La cimice e Il bagno sono espressioni critiche del mondo piccolo-borghese e dei problemi della realtà quotidiana. L’ultima opera di Majakovskij, uno dei punti più alti della sua poesia, è il prologo di un poema incompiuto, A piena voce, del 1930, che può dirsi il suo testamento spirituale.

Majakovskij decise di interrompere violentemente la sua esistenza, con un colpo di pistola al cuore, il 14 aprile del 1930. Nella sua lettera di addio scrisse: “A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici.”

Inutile dire che gli attacchi continui sferrati contro di lui, persino dalla critica di partito, venivano vissuti alla stregua di una persecuzione. Inutile raccontare quanto grande fosse l’amarezza per le delusioni politiche. Inutile soffermarsi sulle pene d’amore che lo attanagliavano. Fatti e risentimenti che in condizioni diverse lo avrebbero solo scalfito, lo spinsero al gesto tragico e improvviso. I funerali del poeta richiamarono a Mosca centinaia di migliaia di suoi lettori.

La sua invettiva è implacabile. Esiste un culto di Majakovskij, esempio di coraggio creativo e politico.



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